dal 31/7/2004 al 13/8/2004 In principio fu il Naples blu e celeste Era l'anno di grazia 1904, il Naples Cricket and Football Club - nato come sezione del Circolo Canottieri Italia - muoveva i primi passi sul Campo di Marte, dalle parti di Capodichino. Sulle cronache cittadine nel racconto delle sue gesta trovavano più spazio i merletti mondani ("Notate la marchesa Cutinelli e la figliola, madame Guidat Durreye con la graziosa figliola, la viscontessa de Melissand... e la più assidua a bordo campo... la duchessa Paduli") che i dettagli tecnici degli incontri fra i rampolli annoiati della nobiltà e della borghesia cittadina, i signorini Scarfoglio (Michele e Paolo, che il fondatore de Il Mattino aveva avuto da donna Matilde Serao), Giolino, Bayon, Treves... In porta, Michele Conforti se la prendeva comoda; portava tra i pali una sedia e, quando l'azione si svolgeva nell'altra metà campo, si accomodava tranquillo e scambiava quattro chiacchiere con chi seguiva l'avvenimento nei pressi. La maglia era dunque blu e celeste, il presidente Luigi Salsi, imprenditore edile di origini emiliane. Di questa preistoria incerta e controversa restano racconti di campi polverosi, trasferte avventurose ed una data: il 16 aprile 1910 il Naples in trasferta a Palermo sconfigge la squadra locale per 2-1 e conquista il Lypton Trophy. Per dare enfasi internazionale all'impresa un cronista un po' avventato trasformerà in maltesi i calciatori palermitani. Nella capitale della tazzulella 'e cafè arriva il primo trofeo calcistico messo in palio, ma guarda un po' tu, dal magnate del the. Sbarcato all'Immacolatella con i marinai dei bastimenti inglesi alla fine del secolo precedente, andato in scena tra l'indifferenza generale al Mandracchio, divenuto passatempo degli altoborghesi cacciatori di mode, il calcio si trasforma nel volgere di brevi anni in fenomeno popolare. E spesso la cronaca da rosa diventa nera con episodi di scazzottate prima, poi risse ed invasioni di campo. Sulla scena, si fa per dire, cittadina il Naples non era solo; esistevano la Sportiva Napoli, la Juventus, la Robur, la Ginnastica Partenopea; oltre la grotta di Mergellina, la Bagnolese. Mentre al Nord il passatempo di moda diventò presto una disciplina sportiva, a Napoli per lunghi anni continuò ad essere un passatempo. Per cui se due o tre giocatori litigavano con il resto della comitiva, non ci pensavano su due volte per fondare un'altra squadra, tutta propria. Nel 1911 alcuni soci si staccarono dal Naples e fondarono l'Internazionale, maglia blu notte, primo presidente Luigi Stolte, che aveva provocato la scissione con Ettore Bayon, Paolo Scarfoglio, lo svizzero Hasso Steinegger, Adolfo Reichlin proprietario delle Cotoniere Meridionali, Augusto Barbati. L'Internazionale fece le cose il grande: arrivarono calciatori stranieri (Ostermann, Little, Kock, Flowes) e costruì un proprio campo di giuoco ad Agnano, recitandolo con un muro. Per la prima volta gli spettatori furono costretti a pagare un biglietto d'ingresso, costo cinquanta centesimi. Napoli spendeva gli spiccioli rimasti di un'Arcadia perduta. Impazzavano il cinematografo e le sciantose del varietà, l'onore era reclamato e lavato a suon di duelli, nel porto veniva stipata sui bastimenti un'umanità dolorante. Superficiale, la città prese ad appassionarsi a questo nuovo giuoco. La prima sfida tra Naples ed Internazionale, ai campionati regionali del 1912, fu epica. Furono necessarie cinque partite. All'andata vinse l'Internazionale, il ritorno fu appannaggio del Naples. Fu necessaria una bella. Alla presenza di ben(!) trecento spettatori, arbitro il torinese Armanni. Alla fine era pareggio, quindi supplementari ad oltranza. Dopo due ore e ventuno minuti era ancora 1-1 ed era ormai buio. La domenica successiva nuova partita e nuovo pareggio, 2-2. Al quinto tentativo l'Internazionale battè il Naples. C'erano volute nove ore.
La divisa di giuoco, maglietta azzurra con risvolti celesti. Continuarono le stagioni di puntuali sconfitte contro Puteolana, Savoia, Bagnolese, Cavese per la squadra che aveva nel suo gagliardetto l'emblema cittadino del cavallo; ed al bar Brasiliano, ritrovo di sconfortati sostenitori, quattro anni più tardi risuonerà con ironia tutta partenopea la battuta che della squadra segnerà la storia ed il destino: chisto è o ciuccio 'e fichella, novantanove chiaje e 'a coda fraceta. Le delusioni non spengono mai le passioni. Giorgio Ascarelli, assurto alla presidenza, impresse una prima svolta alla filosofia societaria sollecitando l'inserimento del diciassettenne astro nascente Attila Sallustro accanto ai suoi grandi acquisti, l'ex nazionale Carcano, giocatore-allenatore, ed una mezzala destinata ad una luminosa carriera, Giuanin Ferrari; lautamente pagati loro due. Nel 1926 con il primo campionato a carattere nazionale nacque, il primo agosto, l'Associazione Calcio Napoli. Non sarà una stagione esaltante: nemmeno una vittoria, ultimo in classifica e retrocesso, ma salvato d'autorità dalla Figc. Il primo presidente era stato, naturalmente, il vulcanico Giorgio Ascarelli. Ricco industriale, ebreo, prima di morire quattro estati più tardi trovò il tempo per regalare al Napoli (a proprie spese) il suo primo vero stadio ed il suo primo vero allenatore, William Garbutt. Vennero gli anni della scapigliatura. Era il 1930. Napoli impazziva per Attila Sallustro e per Lidia Johnson, vedette delle Folies Bergeres. Una domenica Attila andò al Teatro Nuovo e si accomodò in un palco. Il pubblico scattò in piedi e gli tributò un'ovazione, interrompendo lo spettacolo. Al termine, nei camerini, la Johnson presentò al campione la figlia Elena, sedicenne ballerina di fila. Aveva come nome d'arte Lucy D'Albert e misure mozzafiato: 94, 62, 94. Tra il re dello stadio e la prossima regina del palcoscenico nacque qualcosa. Napoli aveva anticipato quasi di un secolo il costume.
Ascarelli aveva gettato fondamenta solide, il pilastro principale era mister Garbutt; con lui in cinque anni il Napoli su 200 partite ne vinse quasi la metà, 92, pareggiandone 42. Alla presidenza si accomodò il duca Giovanni Maresca di Serracapriola. E non badò a spese. Dal Torino arrivò Enrico Colombari, mediano di ferro ma dal carattere impossibile. Era costato 250mila lire. Dalla radio una canzone faceva sognare gli italiani. "Se potessi avere mille lire al mese...". I napoletani già fantasticavano sfracelli, ma non avevano perso il senso dell'ironia. La prima volta che Colombari, perso l'equilibrio, finì a terra, dalle tribune si levò il lazzo mordace: è caduto 'o banco 'e Napule! Sallustro andò militare, a tenere in piedi la baracca furono i gol del fiumano di ferro Vojak. Lontano dalla zona scudetto, il Napoli -pur tra debiti, rivolte della squadra, episodi boccacceschi in ritiro- riusciva a resistere nella zona alta della classifica e a nutrire sogni di trionfi internazionali. In Coppa Europa potrebbe centrare l'obiettivo; contro gli austriaci dell'Admira arriva alla terza partita ma sul campo neutro di Zurigo crolla clamorosamente per 5 a 0. Accusato di scarso impegno a Sallustro toccarono 2.500 lire di multa e la perdita della fascia di capitano. Offeso per le allusioni alla sua vita privata ('a russa, Lucy D'Albert, considerata la causa dello scadimento di forma) al termine di un furibondo litigio con il presidente dell'epoca, Luigi Savarese, sbatterà la porta e per due mesi non si farà vedere sul campo d'allenamento. Ormai il bel giocattolo era irrimediabilmente rotto. Ed entrò in crisi anche l'imperturbabile Garbutt, arrivato a Napoli con la segreta speranza di ripetere all'ombra del Vesuvio le imprese di Genova, dove aveva vinto tre scudetti. Quella stagione si concluse malinconicamente con un settimo posto che concluse l'era-Garbutt. Salì su un treno, direzione Bilbao. Qualcuno disse di averlo visto piangere. Morto da tempo Ascarelli, via lui, era la fine del primo Napoli da rispettare.
Il Napoli, quanto a debiti, era tra le società prime in classifica. Per cui nella seconda metà del 1935 dovendosi risollevare le sorti di club e squadra venne imposto a facoltosi imprenditori l'ingresso nel consiglio direttivo. Fece il suo ingresso sulla scena di Napoli e del Napoli un sorrentino che da mozzo s'era fatto armatore. Sei mesi più tardi (15 marzo 1936) il federale della città dirà ad Achille Lauro: "Sono chiamato in Africa dal mio dovere d'italiano e di fascista. Ti manderò una mia creatura, prendine cura". Tornato a casa, Lauro comunicò a donna Angelina che bisognava attrezzare una stanza per un nuovo ospite. La mattina successiva nel suo ufficio si presentò il vice-federale con i libri contabili ed i debiti del Napoli: 266mila lire. Non era impresa da scoraggiare uno come lui, abituato ad attraversare le tempeste di tutti gli oceani ed a riportare sempre a casa la pellaccia. Al fascismo, che gli aveva permesso di ingrandire la flotta ed era il suo miglior cliente, non poteva dire di no. Lo avrebbe fatto alla sua maniera, rimettendoci il meno possibile: 190mila lire furono ricavate dalle cessioni di Ferraris II e di Busoni, 60mila lire dovette rimettercele, invece, di tasca propria. La squadra fu rivoluzionata ma riuscì ad evitare per un pelo la retrocessione: finì quart'ultima. Ed allora, via con un'altra rivoluzione; portò in maglia azzurra un triestino che avrebbe lasciato un segno nella storia del calcio non soltanto italiano, Nereo Rocco, il futuro "paron" che negli ultimi anni dell'esistenza nella ventosa casa triestina ricorderà ancora con nostalgia gli anni vissuti al Vomero, il tenace Mian ed il terrificante Pretto. Ad ogni fine di campionato le recriminazioni superavano, però, le soddisfazioni; e Lauro, imperterrito, continuava a rivoltare la squadra, il Napoli era come un grand hotel, chi parte e chi arriva. La stagione '39 -'40 fu al vero brivido: salvezza raggiunta all'ultima giornata addirittura per soli sette centesimi di punto nel quoziente reti! Il 10 giugno 1940 all'oceanico gregge festante fu partecipato l'ingresso in guerra. Cinque giorni più tardi Lauro lascerà la presidenza all'ing. Gaetano Del Pezzo: doveva badare alla "sua" creatura, la flotta, con incrociatori e sommergibili nemici nel Mediterraneo non si annunciavano giorni sereni. La prima era-Lauro non lascerà tracce gloriose nel palmares societario ma una stupefacente novità nel libri contabili, il bilancio in pareggio.
Si continuava a giocare, ma per imposizione più che per gioco. La notte passata nei ricoveri, il giorno impegnati ad inventarsi come superare le restrizioni delle tessere annonarie i napoletani non potevano certo trarre conforto dai risultati della loro squadra; il decisivo scontro-promozione con il Modena nell'ultima giornata di campionato andò in scena al Vomero, i bombardamenti s'erano accaniti anche sullo stadio Partenopeo rendendolo inagibile. A due minuti dal termine il modenese Eliani in contropiede uccellerà con un pallonetto Chery Sentimenti uscito fuori dai pali. Sconfitta, ed addio ritorno in A. L'Italia divisa in due, gli alleati sbarcati in Sicilia il 9 settembre '43, il fascismo caduto, era scomparso anche il campionato unico sostituito da tornei a carattere regionale. A Napoli erano iniziati i rastrellamenti dei tedeschi, la città risponderà con le "Quattro giornate". Sullo sfondo, il bagliore del Vesuvio che partecipa alla sua maniera prima di cadere in profondo letargo. Com'era Napoli, passata 'a nuttata? 232.420 vani distrutti o inabitabili, 22mila civili morti, l'economia annientata, niente gas, niente luce, la fila alle fontanine per l'acqua; per le strade segnorine e sciuscià, ordinarie scene da "pelle" malapartiana. Eduardo De Filippo intanto aveva scritto "Napoli milionaria", sarà rappresentata per la prima volta il 26 marzo 1945 al Teatro di San Carlo; il suo dolente messaggio di speranza era naturalmente valido anche per vicende cittadine del pallone. Al bar Pippone, in via Santa Brigida, s'era infatti ripreso a parlare di calcio già l'anno prima. A maggio era nata, per iniziativa del giornalista Arturo Collana, la Società Sportiva Napoli; il 1 giugno la Società Polisportiva Napoli, auspice Gigino Scuotto, uno dei più abili dirigenti mai nati a Napoli, artefice di miracoli di cui non si potrà mai vantare in pubblico. Dopo lunghe trattative i due sodalizi, il 19 gennaio dell'anno successivo, si fusero nell'Associazione Polisportiva Napoli; presidente, per un mese e due giorni, proprio Gigino Scuotto ben lieto di cedere l'incombenza all'ing. Savarese e di occuparsi, quale suo vice, di cose concrete, come il reperimento di un campo per partecipare al campionato regionale. Inagibile l'ex Ascarelli, requisito dagli alleati il Vomero, riuscì a farne allestire uno alla bell'e meglio all'interno dell'Orto Botanico a via Foria.
Dopo una scialba stagione vivacchiata nel campionato regionale (1945), e la partecipazione al campionato misto del Centro-Sud ('45-'46) con una squadra costata 7 milioni, il Napoli di Andreolo, Lustha, Rosi e Barbieri conquisterà la A e una nuova denominazione sociale: il 20 febbraio '47 riecco l'Associazione Calcio Napoli di ascarelliana memoria. In scena comprimari più che prim'attori. Alla prima stagione nel tentativo di salvare l'annata tenteranno di comprare una partita a Bologna. Processo per corruzione e retrocessione per stabilire, l'anno dopo, un altro primato tragicomico: l'affidamento dei pieni poteri a Domenico Mattioli, il presidente della rivale Salernitana militante nello stesso torneo! Egidio Musollino, presidente con Scuotto vice, capì la lezione e decise di assumere l'allenatore della Pro Sesto, un ex campione del mondo: Eraldo Monzeglio. Dai tempi di Garbutt non era arrivato a Napoli un uomo capace di guidare con mano ferma un ambiente così vulcanico; più tardi sospirerà: "qui non avrete mai niente di buono". Fu promozione al primo tentativo e forse sarebbe stato l'inizio di un ciclo vincente se all'alba del 22 febbraio 1951, svegliato dall'incendio del ristorante D'Angelo su cui si affacciava la sua abitazione, Musollino non fosse stato stroncato da un infarto. La successiva diarchia Cuomo-Scuotto portò contrasti e niente quattrini. Si bussò alla porta di Achille Lauro; l'8 agosto accettò la presidenza onoraria, il 29 aprile dell'anno successivo pagherà parte dei debiti e, messa in liquidazione la vecchia A.C.Napoli, darà vita ad un altro sodalizio con la medesima denominazione sociale di cui era il maggior azionista. Come se 11 fossero stati un brutto sogno. Era sopravvissuto alla guerra, al confino, alla distruzione della flotta. Era di nuovo 'o comandante e la sua storia personale sarà, per sua volontà stavolta, intrecciata a quella del Napoli. "Per un grande Napoli ed una grande Napoli vota Lauro" fece scrivere anni dopo sui palazzi della città. E Napoli gli regalò 300mila voti e Palazzo S.Giacomo. In contraccambio ebbe Jeppson, pagato 105 milioni, e Bugatti, e poi Vinicio. Nessuno sembrava in grado di contrastarlo, tranne Monzeglio, capace di metterlo alla porta degli spogliatoi dove s'era presentato con un codazzo di cortigiani. Il clima da basso impero, le trame di Amadei, metteranno fine alla prima stagione napoletana del galantuomo don Eraldo. L'interregno di Frossi durerà 4 giornate, poi Amadei in panchina. Invano esporranno uno striscione: vendetevi l'anima, ma non Vinicio. Amadei nel '60 fece vendere Vinicio ed acquistare Pivatelli, Baldi, Gratton; nel corso della stagione gli affiancarono come dt un mito, Renato Cesarini. Fu B. L'anno successivo Pesaola conquisterà la promozione (e la prima Coppa Italia del club), nonostante una storia di corruzione liquidata con la squalifica di personaggi minori. Poi di nuovo una retrocessione ed un altro anno di purgatorio. Fino all'ennesima rivoluzione societaria.
Il vecchio leone continuava a battersi, il Napoli non intendeva mollarlo, ad onta del pauroso deficit finanziario. Ci volevano quattrini freschi, Lauro a suo dire già creditore di 480 milioni non intendeva sborsarli. Si formarono due cordate per rilevare l'A.C. Napoli in liquidazione. Il comandante, con collaudata abilità, mise gli uni contro gli altri, poi scelse la soluzione che gli sembrò più conveniente per i suoi interessi e le sue ambizioni. Il 25 luglio 1964, con atto del notaio Monda, nacque la S.S.C. Napoli SpA; capitale sociale 120 milioni di cui 80 effettivamente versati. Lauro per rinunciare al suo credito ebbe il 40% del pacchetto azionario; il 21% andò a Roberto Fiore, da poco entrato a far parte della vasta schiera dirigenziale, il 30% ad Antonio Corcione che mandato a corrompere il portiere veronese Ciceri s'era fatto carico di tutte le colpe del tentato illecito e della conseguente squalifica. Eletto presidente, Fiore richiamò Pesaola e l'ultima giornata di campionato sancì (vittoria sul campo del Parma già retrocesso) il ritorno in serie A. Quel traguardo fu un trampolino dal quale Fiore spiccò il volo: ahilui, troppo in alto, e fece la fine di Icaro. Fiore gongolava quando la sua corte lo definiva "presidente tecnico". In effetti, profondo conoscitore di Napoli, era un abile organizzatore di spettacoli calcistici. I consigli tecnici erano di Pesaola, lui se ne prendeva i meriti. Allestì una campagna acquisti faraonica, puntando su campioni collaudati da mettere al fianco di Antonio Juliano, di Enzo Montefusco, di Faustinho Canè. Andò al Gallia e dal presidente milanista Riva ebbe per 270 milioni Josè Altafini già promesso da Viani alla Juve per 300 milioni. Poi seppe (dal solito Pesaola) che Sivori, in rotta con Heriberto Herrera, doveva essere ceduto al Varese. Sivori valeva 300 milioni, come acquistarlo? Chiese aiuto al comandante. Lauro telefonò ad Agnelli e s'accordarono: la flotta comprava i motori per l'Achille Lauro e l'Angelina Lauro, le sue nuove ammiraglie, Sivori veniva ceduto al Napoli per 90 milioni, pagamento biennale. Altafini arrivò in aereo e la pista di Capochino fu invasa dai tifosi; Omar scelse il treno. Alla stazione di Mergellina ad accogliere il più estroso degli angeles de la cara tinta erano in diecimila. Nella campagna-abbonamenti Fiore contò 800 milioni.
Ma, nell'ombra, Jago era al lavoro. Qualcuno racconterà a Lauro di stranezze nella regolarità dell'amministrazione societaria, il comandante farà pubbliche allusioni, senza uno straccio di prova. Racconteranno a Lauro anche che 'a chiattona allo stadio aveva urlato "Robertììì, si' bello!". E no, questo no. L'ammirazione alla virilità aveva da essere per lui soltanto. E poi, come s'era permesso di accettare l'incarico federale di commissario per uniformare lo statuto societario a quello predisposto dalla FIGC senza chiedergli il permesso? Lavorato ai fianchi per settimane, con Corcione passato dalla parte del comandante, Fiore fu costretto a dimettersi. Lo farà il 27 dicembre con una lettera pubblica ai tifosi; disconoscendo l'autorità del vecchio timoniere e rivolgendosi direttamente al "popolo" dal quale credeva di aver ricevuto l'investitura. Sognava, don Roberto. Sognava le dimissioni, soltanto preannunciate, di Pesaola, l'ammutinamento della "sua" squadra, la rivolta popolare. Giusto per annusare l'aria il comandante non lo sostituì subito; la società fu retta dal legale laurino Diamante, nominato commissario, poi la consegnò al figlio Gioacchino, aduso a gonfiare le spese per rimpinguare l'assegno mensile paterno e di affari come l'acquisto di 20mila galline ovaiole... Con il suo arrivo al Gallia lievitarono tutti i prezzi, anche quelli delle mignotte. Il campionato s'era chiuso al quarto posto, Gioacchino non badò a spese. Mancato l'ingaggio di Giggirriva, dal Mantova arrivò il giovanissimo Zoff, Altafini con un consiglio non disinteressato di cui il tempo s'incaricherà di svelare a tutti la ragione aveva ottenuto l'acquisto di Barison. Champagne per tutti, Porsche in regalo ai calciatori più bravi; a Natale ed ai compleanni, gioielli alle signore. Sarà secondo posto, ma sarà anche l'anticamera del fallimento, con il messo dell'Esattoria comunale arrivato in sede con un precetto di pignoramento per 15 milioni. Ed allora, via Gioacchino. Alla presidenza Antonio Corcione, amministratore delegato Roberto Fiore. Fiutata l'aria, Pesaola cambierà panchina con Chiappella, andando a vincere lo scudetto a Firenze. Sei mesi a regalare buste gonfie di biglietti omaggio; la presidenza Corcione si concluse con il suo funerale. In arrivo l'addio di Sivori, squalificato per sei giornate dopo una maxirissa nel corso di Napoli-Juve ed il ciclone Ferlaino.
Entrato di soppiatto con quella sua aria indefinibile ed una storia di strane leggende metropolitane alle spalle, Ferlaino alla fine poteva essere definito, nel più benevolo dei casi, uno stravagante. Era sfuggente; da lui non potevi prevedere mai da che parte sarebbe arrivato il colpo mortale. Di soppiatto arrivò anche a casa Corcione, facendo le scale a quattro per non farsi bruciare sul campo dai fratelli Mercadante che s'erano serviti dell'ascensore per trattare con la vedova del presidente l'acquisto del suo pacchetto azionario. Sentì una frase: s'accomodi, ingegnere; era rivolta ai Mercadante, costruttori, ma sprovvisti di laurea. Incuneò un piede nella porta prima che fosse richiusa e proclamò: qui l'unico ingegnere sono io! Vero; la laurea in ingegneria se l'era comprata, ma lui l'aveva sul serio. I compratori chiusi in due stanze, il cognato della vedova Corcione, Tardugno, faceva la spola. Al terzo rilancio, Ferlaino di soppiatto chiuse a chiave la stanza dov'erano i Mercadante. Promise a Tardugno di farlo diventare il suo braccio destro nel Napoli e strappò una firma in calce all'accordo: 70 milioni per il 30% delle azioni, valore nominale 36 milioni. Fiore, che l'aveva inviato a chiudere la trattativa per depistare i concorrenti, l'aspettava nel salotto di casa. Al suo arrivo, ed alla notizia che tutto era andato per il meglio, iniziarono i festeggiamenti; Fiore gongolava a sentir quell'appellativo "presidente, presidente". Ferlaino gelò tutti : "Sì, presidente. I soldi li ho cacciati io, il presidente lo faccio io". S'era accordato con Lauro, azionista di riferimento col suo 40%. Il comandante, sicuro di cucinarsi a dovere quel pivellino, lo chiamava figlio mio... Il 18 gennaio 1969 fu eletto presidente, aveva 37 anni e davanti un mare di problemi ed un posto nella storia. Non lo sapeva. Gli avevano fatto credere che i debiti ammontavano a 598 milioni; alla prima ricognizione scoprì che il buco era più vicino ai tre che ai due miliardi. Manco il tempo di ricevere le consegne e dovette sborsare 300 milioni. Lauro, scoperto con quale incoscienza si fosse tuffato nelle curve quel vincitore di Targa Florio, provò ad irretire Fiore. Fu bruciato sul tempo. Pontiere il comune amico Tullio Conte, convinse Fiore a vendergli il suo pacchetto azionario. Don Roberto delegò lo zio a portare avanti la trattativa. Il suo 21% di azioni, valore nominale 25 milioni e 250 mila lire, fu pagato 183 milioni. Come il Comandante, Ferlaino ha legato la vita del Napoli alla sua, talvolta utilizzando un'unica cassa. Ha assunto più volte la presidenza, diversi allenatori; comprato molti giocatori, rischiato il tutto per tutto per assicurarsi partite decisive quanto simpatie arbitrali. Chiappella che tentò di far sbocciare una nuova Fiorentina, Vinicio che praticò per primo un calcio-spettacolo e sfiorò pure lo scudetto, Marchesi mai capace di mettere in pratica la sua concretezza, Pesaola inseguito, conquistato, ripudiato; poi Bianchi e Bigon, i vincenti. Accanto a lui i manager migliori: lo scontroso Juliano, il fine Marino, il grande Allodi, il solfureo Moggi. Ha litigato e fatto pace con tutto il calcio che contava, lottato contro il mondo intero, la camorra. Ha resistito agli insulti ed alle bombe. Diabolico, vendicativo, subdolo, bugiardo, antipatico. Alla fine, il miglior presidente nella storia del Napoli.
Maradona era già meglio 'e Pelè; nonostante la caviglia fracassatagli da Goicoechea, nonostante la vita già maledettamente disordinata. Voleva prenderlo l'Avvocato per la sua Juve; poi la confidenza riservata di un dirigente catalano lo dissuase e puntò per Platini, più vicino alla sua ironia tanto snob. Fu una fortuna per tutti. Di Maradona si conosceva tutto, grandezza e miserie; inimitabile in campo, impossibile fuori. Soprattutto si conosceva, dell'affare, la difficoltà nel portare avanti la trattativa con il presuntuoso Barcellona; e la richiesta, milioni di dollari. Alla fine ce ne vorranno sette e mezzo. Juliano si tuffò nella mischia come nella partita della vita. Si stabilì a Barcellona con Dino Celentano e Corrado Isaia, a stretto contatto con una variopinta corte di mediatori ed informatori coordinata da Jorge Cysterzpiler, il riccioluto e claudicante ebreo diventato il manager di Dieguito dall'epoca in cui alla "cebollita" nata a Lanus da un papà falegname aveva offerto la prima pizza della sua vita. Ferlaino seguiva tutto da lontano. Una volta andò a Barcellona pronto a firmare il contratto e se ne ripartì subito perché gli avevano cambiato le condizioni. Intanto, con l'appoggio di Enzo Scotti, il sindaco, e grazie all'amicizia di Ferdinando Ventriglia, presidente factotum del Banco di Napoli, si procurò i quattrini necessari. Più volte il consiglio di amministrazione del Banco si riunirà di sera all'hotel Excelsior per approvare i fidi bancari da inviare in Catalogna. Quando arriverà l'ennesimo, ma autentico via libera, era sabato 30 giugno 1984; a mezzanotte scadeva la campagna acquisti. Millantando un inesistente placet di Ventriglia, fece inviare dal funzionario di turno le garanzie bancarie richieste. Poi, su un executive, volò a Milano e si precipitò nella sede della Lega dove, alla guardia giurata di turno consegnò una busta, vuota, ed una mazzetta cospicua. Riprese il jet privato ed in tarda serata firmò a Barcellona il contratto definitivo. Ritornò a Milano alle due di notte, il termine ultimo per depositare il contratto abbondantemente scaduto. Tutti sapevano, la trattativa era stata condotta e conclusa in diretta sotto gli occhi di mezzo mondo interessato ed incuriosito; le radio catalane trasmettevano senza sosta interviste ed indiscrezioni, a Napoli una emittente televisiva non staccò mai la linea con il proprio inviato in collegamento telefonico. I giornali, quella notte, andarono in macchina fuori tempo massimo pur di annunciare la lieta novella: habemus Maradonam. Tornato in Lega, sostituì la busta vuota con quella contenente il contratto. Nessuno volle accorgersene. Il 5 luglio al San Paolo, dove eranbo già in vendita maglie azzurre con il numero 10 ed il nome del titolare. 70mila e passa tifosi in delirio pagheranno mille lire per assistere ai primi palleggi dell'idolo che oscurerà tutti, Dieguito.
La stagione successiva, pur rinforzata da Careca, la squadra mancò un bis annunciato e, a tre quarti di campionato, unanimemente giudicato inevitabile. Accadde che s'era rotto il feeling tra Bianchi e la squadra. E che ormai in Maradona la sregolatezza cominciava ad essere pari al genio. In un rapporto della Questura erano contenute le foto di lui in una vasca da bagno dorata in compagnia dei fratelli Giuliano, i camorristi che gli regalavano e lo rifornivano di cocaina. A Castelcapuano, dove il rapporto era giunto, qualcuno lo seppellì in un cassetto; c'era da rivincere lo scudetto. Ed invece lo vinse il Milan. Un'inchiesta non stabilì mai quanto fondata fosse la voce secondo cui quel tricolore lo assegnò la camorra per evitarsi un crac economico avendo accettato ingenti puntate al totonero sul Napoli campione d'Italia. Ferlaino non s'arrese; cercò la rivincita e l'ebbe ma solo in campo internazionale. 17 maggio 1989, a Stoccarda il Napoli conquistò la coppa Uefa; lo scudetto andrà all'Inter. Tornerà, il tricolore, l'anno successivo con il mite Bigon sulla panchina liberata da Bianchi. L'estate era stata movimentata dal tormentone Maradona, scomparso in Argentina, mentre Tapie aveva rivelato di aver raggiunto un accordo con lui per portarlo a Marsiglia. Fu necessario rinegoziare il contratto con Dieguito, in pratica riacquistandolo; altri sette milioni e mezzo di dollari. Ed arrivò il bis, grazie alle monetina che colpì Alemao nel corso di Atalanta-Napoli trasformando il pareggio in una vittoria ed al harakiri milanista nel finale di stagione. La cosa più difficile ormai era diventata la gestione di Maradona, sempre più schiavo della bianca polverina degli dei; l'impresa fu affidata a Luciano Moggi. A furia di compromessi e di bugie, di provette sostituite al controllo antidoping, si andò avanti. Poi il patatrac: beccato positivo; cocaina, ovviamente, la droga che ne deprimeva le prestazioni agonistiche. Un agguato ed una vendetta ordita all'interno del club, ha sempre sostenuto lui. La squalifica gli impedì di portare a termine il campionato. Fu ceduto al Siviglia. Il suo sole cominciava malinconicamente a tramontare. Prese ad impallidire anche la stella di Corrado Ferlaino, s'avvicinava il ciclone Tangentopoli. E per il Napoli un inarrestabile declino.
Poteva essere la rinascita. Ed invece per far cassa furono ceduti Ferrara, Crippa, Thern, Zola. Ferlaino per la prima volta era azionista di minoranza, avendo ceduto i pacchetti di controllo a Gallo e a Setten; un altro aspirante dirigente, Vincenzo Pinzarrone, fu arrestato appena preso possesso di una scrivania a Soccavo; i titoli di credito versati in banca per l'acquisto di Cruz e Rincon erano falsi! Squadra affidata a Guerini, poi a Boskov. Il 20 giugno 1995, un nuovo presidente: nientedimenoche, Corrado Ferlaino, tornato per evitare il crac (forse anche quello del suo gruppo) grazie al sindaco Bassolino e al presidente federale Matarrese. La squadra non era malvagia, l'allenatore valido: Gigi Simoni, licenziato alla vigilia della finale di Coppitalia, per essersi promesso all'Inter. Ferlaino non accettava di subire le scorrettezze ch'era pronto a commettere. Il campionato seguente fu caos totale: 4 allenatori (Mutti, Mazzone, Galeone, Montefusco), per conquistare 14 punti; il ritorno del "nemico" Juliano dopo 13 anni e della B dopo 33. Nell'inferno della cadetteria si rosolerà a dovere il narciso Ulivieri. Ci vorrà la grinta sanguigna di Novellino per tornare in A; mentre il traguardo era vicino, il 5 aprile 2000, Ferlaino vendè a Giorgio Corbelli il 50% del pacchetto azionario. Coprendo con 100 miliardi le esposizioni di Ferlaino verso le banche, il nuovo arrivato acquisì in comproprietà anche un suolo a Giugliano e le quote di maggioranza di palazzo D'Avalos. La serie A fu un dramma in un clima di tutti contro tutti. La diarchia a volte funzionava nell'antica Roma; tra i consoli del Napoli furono liti e dispetti. Nessuno si assumerà la paternità dell'ingaggio di Zeman, né la sua sostituzione con Mondonico. Sarà tutta sulle loro coscienze la salvezza mancata per un solo punto. Andranno avanti così con l'ennesima rifondazione, affidata a De Canio. A crederci, il solo Corbelli. Ferlaino, non più. L'unico suo obiettivo era ormai un'uscita di scena alla grande, che facesse dire ch'era stato come sempre il più furbo; cioè ben ricompensata.
Naldi s'era tuffato in un corso accelerato di presidenza; nelle condizioni peggiori e nonostante l'invito della famiglia e dei consulenti a lasciar perdere, quaranta miliardi erano uno sfizio ancora sopportabile. Invece decise che da quel momento in poi nessuno dovesse più dirgli cosa fare. Disse ai suoi di andare avanti nelle trattative: i soldi c'erano, sapeva lui dove prenderli. Il 30 maggio all'hotel Mediterraneo si festeggiò la conclusione della trattativa con Corbelli; il 21 giugno, a Soccavo, la sua nomina a presidente. Oggi si avvera un sogno, disse, un tifoso diventa presidente del Napoli. Spiegò perché l'aveva fatto: la sua famiglia aveva un debito morale con la città, voleva saldarlo. Chiese aiuto e collaborazione: alle istituzioni, agli imprenditori della città, ai tifosi. Da questi ultimi ottenne simpatia, ma anche le coltellate di aggressioni ai giocatori e di due invasioni di campo (al S. Paolo contro la Salernitana e nell'ultima stagione ad Avellino) che compromisero irrimediabilmente due campionati. Gli imprenditori confermarono con il silenzio di essere poco allenati ad affrontare i rischi. Le istituzioni provarono a stargli vicino senza mai seguire l'esempio dell'amministrazione comunale di Torino. Si fecero avanti avventurieri e millantatori, il misterioso giordano Haq, avvoltoi. Dovette e volle far da solo. Tra quattro candidati al ruolo di general manager scelse l'ultimo, Marchetti, il più inadeguato ed inesperto. Dovette fare i conti con Moggi, abile nel promettere tutto per non mantenere niente, piazzati a prezzi altissimi calciatori bolliti e tecnici ossequienti della scuderia del figlio. A dicembre dell'anno scorso disse basta, non tirerò fuori più un centesimo, ho dei doveri verso la mia famiglia: erano i circa 400 dipendenti della sua impresa alberghiera, messi in pericolo dal Napoli. Così i libri sociali della SSC Napoli sono tornati in Tribunale, per restarvi definitivamente. Naldi è uscito battuto, come il presidente del fallimento. Ha sbagliato, ma per troppo amore. Il tempo, galantuomo, si incaricherà probabilmente di stabilire un giorno che dopo Giorgio Ascarelli è stato il secondo presidente, nella storia del club, a pagare tanto di tasca propria. Tutti moriamo due volte. Quando lo certifica un medico e quando nessuno più si ricorda di noi. Lo hanno certificato in Tribunale e in Federcalcio, il Napoli è morto. Ma vive ancora in sei milioni di cuori. |